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La tragedia della guerra in Ucraina

Storia di Natalia, madre e profuga in Calabria

Sono trascorsi tre lunghi anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino e ancora sembra così lontana la pace. Cresce il numero delle vite spezzate dalla morte e dalla lontananza. Tra queste, quella di Natalia Kalmakova e dei suoi due figli, Andrei di 32 e Ivan di 15 anni, della città di Berdichev, nella regione di Zhytomyr: divisi dalla necessità e dal desiderio di custodire la vita e la libertà, entrambe ferite da una guerra che impone agli uomini maggiorenni d’impugnare le armi e di abbandonare familiari, amici e casa a donne e bambini che  altrimenti non avrebbero salvezza. 

Natalia, sono trascorsi oltre 40 mesi dall’inizio della guerra, cosa rimane ancora incancellabile nel ricordo di quel 24 febbraio 2022?

Momenti terribili. Il 24 febbraio 2022, io e mio figlio, come ogni mattina ci siamo svegliati per andare io a lavoro, lui a scuola. Di fretta, senza guardare televisione o telefono ci siamo preparati per uscire. Quando ricevo una telefonata da parte di mio figlio, Andrei, che per lavoro si trovava nella zona di Gostomel e, visti i numerosi militari russi, aveva deciso, insieme al collega con cui viaggiava, di far rientro a casa. Mi invita a non uscire e ad accendere cellulare e tv, perché è scoppiata la guerra. Non ci credevo. Gli chiedo se sta scherzando. Accendo il telefonino e trovo decine e decine fra messaggi e telefonate di amici e parenti. Accendo la tv e scopro che in diverse zone nei pressi di Kiev i militari russi hanno invaso le strade per l’inizio della guerra. Nella regione di Zhytomyr, dove abitavamo, esiste una linea di demarcazione: un cordone della regione di Kiev che attraversa le comunità di Naroditska e Malinsk, lì venivano effettuate operazioni militari su vasta scala.

Natalia e il figlio Ivan felici in Ucraina, prima dello scoppio della guerra.

Mi sono sentita travolta da sentimenti di paura e angoscia. Ho raccolto immediatamente i documenti e gli effetti personali e sono uscita per comprare le cose necessarie: acqua e medicine e qualche biscotto per Ivan. In giro per la città si era già diffuso il panico e la gente correva di qua e di là per farsi delle provviste.

Sono andata poi a lavoro, portando con me Ivan e il nostro gatto. Mio figlio non voleva lasciare la casa senza lui. Temeva che non avremmo fatto in tempo a rientrare per prenderlo. Uno zaino e via. Questa è stata la nostra vita per settimane: ogni mattina, al suono delle sirene, prendevamo zaino, gatto, biscotti e via a cercare un posto per nasconderci. Io lavoravo in un call center che cura la comunicazione di tutta l’Ucraina: internet, tv, radio.

Dopo circa un mese e mezzo eravamo stanchi delle sirene che suonavano di giorno e di notte e del rumore orribile delle bombe; sfiniti nell’andare in cerca di luoghi sicuri e angosciati nel vedere feriti e temere di essere feriti. Tutte le finestre della nostra casa le abbiamo rivestite di coperte, così nel caso di bombardamenti non rischiavamo di essere uccisi dai vetri. Eravamo ormai pronti a lasciare il Paese. Ci bloccava però il pensiero di dover lasciare il figlio maggiore, Andrei. Il governo, infatti, ha emanato una legge che obbliga i figli maschi maggiorenni a non muoversi dall’Ucraina perché utili all’esercito. Ma Ivan non voleva lasciare suo fratello. Mi diceva: “Salvati, mamma! Io rimango con Andrei e se dobbiamo morire moriremo insieme!”. Chiaramente non presi minimamente in considerazione tale proposta. 

Quando la partenza si è resa necessaria?

Nelle settimane successive si è presentato un problema: Ivan, oltre all’insonnia, mostrava reazioni cutanee preoccupanti, rossori e bruciori sul viso e altre parti del corpo. Inoltre aveva difficoltà a camminare, era bloccato nei movimenti, sentiva le gambe pesanti, come un anziano, aveva difficoltà ad alzarsi e muoversi. Recatici in ospedale – affollatissimo, a causa della guerra – un professore ci ha raccomandato di allontanarci per almeno due mesi dall’Ucraina, perché assai probabilmente quella di Ivan era una reazione nervosa al conflitto. A quel punto la partenza era diventata necessaria.

È stato difficilissimo lasciare Andrei. A soffrirne di più è stato Ivan che riteneva questa decisione un tradimento nei confronti del fratello maggiore. Secondo lui non dovevamo assolutamente lasciarlo solo, senza noi. Ma non avevamo scelta. Con la morte nel cuore abbiamo lasciato Andrei. 

Quali sono state le tappe del viaggio prima dell’arrivo in Italia?

Prima di partire ho cercato un posto dove andare, dove stare al sicuro e avere un lavoro per mantenere la famiglia.

Alcuni proponevano la Lituania. E siamo partiti per recarci lì. Ma, arrivati vicino alle frontiere, abbiamo saputo che non accettavano l’ingresso di bambini. Allora ci siamo spostati verso la Slovacchia, dove tante altre donne con figli piccoli, provenienti da Mariupol e dal Donbas, dopo aver perso casa e non potendo più far ritorno in patria, ricevevamo ospitalità. Arrivati in Slovacchia, scesi da un pullmanino che ci ha lasciati nella piazza della città, siamo stati accolti da alcuni uomini che ci hanno assicurato l’ospitalità anche dei piccoli; ma pure chiesto di pagare un prezzo che non potevamo permetterci. Ci siamo spaventati. Anche perché per lavorare avremmo dovuto lasciare soli i nostri figli.

Natalia con il figlio Ivan adesso vivono in provincia di Cosenza.

Allora ho pensato di scrivere ad alcuni amici su Facebook per domandare se era possibile trovare ospitalità in Italia: ero stata lì vent’anni prima; perciò conosco un po’ la lingua italiana. Mi hanno detto che avrei trovato lavoro in un albergo e che avrei potuto prendermi allo stesso tempo cura di mio figlio. Avevo tante paure e incertezze. Temevo per me e per mio figlio. Ma, alla fine, io e Ivan abbiamo deciso di prendere il treno e di venire in Italia. Ne abbiamo presi diversi treni, una cosa nuova per Ivan: abbiamo viaggiato per tre giorni! Siamo giunti in Italia passando per l’Austria. Siamo arrivati a Venezia, poi a Roma e infine a Fuscaldo. Ho lavorato lì per circa cinque mesi, mentre Ivan, grazie anche alla vicinanza del mare, lentamente vedeva scomparire dalla pelle quel rossore preoccupante e riprendeva a muoversi come un ragazzo della sua età.

Successivamente ci siamo spostati a Saporito di Rende, dove ho trovato un altro lavoro e una casa vicino alla scuola media che frequenta attualmente Ivan.

Cosa significa oggi per te e per la tua famiglia la guerra?

La guerra è la rovina di tutto. La nostra famiglia ha smesso di stare insieme. Avevamo finalmente, dopo tanti sacrifici, comprato casa, trascorrevamo giornate uniti, passeggiando e andando a pesca. Ora siamo divisi. Il mio cuore è spezzato. Mio figlio Andrei è lì e non posso fare niente per lui. Sta crescendo, sta cambiando e non sto condividendo questo tempo con lui. Ogni giorno vivo con l’incubo che gli facciano del male. Ogni mattina mi sveglio con l’ansia di sapere se hanno bombardato, lanciato razzi o droni e se mio figlio in qualche modo sia stato colpito. A volte non mi risponde al telefono, per problemi di linea, e tremo al pensiero che possa essere morto. 

C’è una vita prima del 24 febbraio 2022 e una vita dopo. Niente è più lo stesso. Tutto si è capovolto. C’è un dolore di fondo che ci accompagna. Non abbiamo più certezze. Viviamo alla giornata senza fare programmi. Non sapendo quello che il domani ci porterà.

Pensi sia possibile la Pace tra Russia e Ucraina?

Certo che è possibile! Ma che prezzo stiamo pagando e che dobbiamo ancora pagare per avere la Pace!

Abbiamo perso tanti figli. Mie amiche hanno perso in guerra i loro figli unici. Non hanno più nipoti, parenti. Sono sole. Dopo una vita spesa a costruire, lavorando e tenendo unita la famiglia, ora c’è il nulla: morte e solitudine, ovunque. Non mi do pace per questo.

Cos’altro dobbiamo perdere ancora per far finire la guerra? Finirà, finirà, sono certa che finirà; ma il prezzo è stato e continua a essere troppo alto. Quando parlo con Ivan oggi della possibile fine della guerra e di un eventuale rientro in Ucraina, lui dice che non vuole saperne. Desidera completare gli studi iniziati; rientrando lì si sentirebbe spaesato.

Mentre parli non vedo solo lacrime: continui a sperare e a essere grata alla vita. 

Sì, ho il cuore pieno di gratitudine per tanti, in particolare per la Parrocchia di Sant’Antonio d Rende: per tutti voi che ci aiutate, per Rossana dell’Ufficio Migrantes, per Chicco della Caritas, per gli insegnanti del Corso d’italiano che aiutano Ivan a studiare e per l’Agesci che Ivan ha iniziato a frequentare. Gli Scout hanno aiutato Ivan a non sentirsi solo. Grazie alla loro vicinanza e alle loro attività, Ivan ha trovato il coraggio di non vedere la differente cultura e lingua come una barriera e l’essere straniero come un limite: ha ritrovato la fiducia e la gioia di vivere che aveva perso. Ora è felice. Sì, sento un profondissimo sentimento di riconoscenza per tanti e ora ho nel cuore solo una parola: grazie!