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L'intervento dell'economista Domenico Cersosimo alle Giornate di Studio dell'Istituto Teologico Calabro, presso il Seminario San Pio X di Catanzaro

Quali povertà offendono l’umano? La Calabria e il Sud, nel tornante del riscatto

1. Viviamo in un’epoca storica caratterizzata da crescenti disuguaglianze di reddito e di ricchezza tra paesi, all’interno dei paesi, tra gruppi sociali, tra famiglie e individui. 

Ricchi e poveri ci sono sempre stati, ma oggi i ricchi sono più numerosi che in qualsiasi altro momento della storia. Perdipiù, la concentrazione della ricchezza globale sta aumentando: l’1% degli italiani più ricchi è titolare di un patrimonio 84 volte superiore a quello detenuto dal 20% più povero della popolazione. 

La spiegazione principale di questa acuta ingiustizia sociale è nella natura regressiva della tassazione sui redditi alti. 50 anni fa negli Stati Uniti l’aliquota fiscale massima era attorno all’80% ed è stata ridotta al 21% da Trump. In Italia, l’aliquota Irpef massima è passata dal 1974 ad oggi da poco più del 70% a poco più del 40%, mentre quella minima è stata più che raddoppiata (dal 10 al 22%). La tassa piatta al 15% (autonomi), la cedolare secca al 20% (proprietari di case).

I ricchi sono convinti che la loro fortuna sia frutto esclusivamente del proprio merito e della propria intraprendenza, così come la disoccupazione e la povertà sarebbero colpa dei singoli individui. Insomma, seconda questa narrazione costruita ad arte, chi non riesce a raggiungere il successo si ritrova ad essere un perdente isolato, circondato da altri compagni di sventura. Questa visione distorta e velenosa è il risultato dell’ideologia meritocratica del neoliberismo e del capitalismo finanziario degli ultimi decenni. La meritocrazia senza pari opportunità iniziali finisce per consolidare il privilegio, poiché chi nasce più ricco ha un vantaggio iniziale che tende ad aumentare nel tempo, contribuendo così a creare un circolo vizioso in cui i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. 

2. L’Italia è tra i paesi sviluppati con le più forti disuguaglianze interne di reddito pro capite, di povertà ed esclusione sociale. Il valore più alto di disuguaglianza si registra in Calabria, dove il reddito del quinto dei calabresi più ricchi è 8,5 volte quello del quinto dei calabresi più poveri (5 volte nella media europea). 

Nel panorama nazionale ed europeo la Calabria rappresenta l’estremo. Un calabrese su due è povero o a rischio di esclusione sociale contro poco più di un quinto a livello medio nazionale. (5,8% nella provincia di Bolzano e 7,4% in Emilia-Romagna, incidenze rispettivamente otto e sette volte più basse di quella calabrese). 

Il 20% dei calabresi, ovverosia tra 350 mila e 400 mila, è costretto a fare i conti  con severe e plurime privazioni materiali e sociali come non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni; non poter sostenere spese impreviste; essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non potere riscaldare adeguatamente la casa; non potersi permettere un’automobile; non poter sostituire abiti consumati con capi di abbigliamento nuovi; non potersi permettere due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni; non potersi permettere una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali; non potersi permettere di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese; non poter sostituire mobili danneggiati o fuori uso con altri in buono stato; non potersi permettere una settimana di vacanza all’anno lontano da casa; non potersi permettere una connessione internet utilizzabile a casa; non potersi permettere di svolgere regolarmente attività di svago fuori casa a pagamento. 

Nella media nazionale, gli italiani costretti a così gravi deprivazioni sono il 4,7% ma in Emilia Romagna sono meno dell’1%, mentre in tutte le altre regioni, comprese quelle meridionali, la grave deprivazione coinvolge in media una percentuale di abitanti di gran lunga inferiore al 10%. 

3. Come in nessuna altra regione italiana ed europea, i dati configurano in modo evidente due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro.

Da un lato, ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Appartengono a questa “prima” Calabria i calabresi, che possono smarcarsi dalle falle del malconcio sistema sanitario regionale ricorrendo, se necessario, alle strutture sanitarie private locali e nazionali; che possono sostenere la formazione scolastica dei loro figli ricorrendo ad insegnanti privati; che viaggiano per lavoro e vacanze, sovente in località turistiche esclusive; che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa; che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore; che riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitare i loro effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. 

Nell’insieme, sono calabresi che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che di tipo associativa (Lyons o Rotary, Ordini professionali, Associazioni imprenditoriali, circoli massonici, reti informali di comparatico, circuiti ‘ndranghetisti).

Sono per lo più calabresi “estrattivi”, che traggono benefici dallo status quo, dalla politica come “motore primo” degli standard di vita, dai bonus pubblici. Calabresi che hanno sviluppato speciali abilità di torsione dei provvedimenti pubblici, centrali e locali, alle logiche di riproduzione dei loro benefici. Calabresi concentrati soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative) che esso comporta. 

Poi c’è la “seconda” Calabria, di dimensioni simili alla prima ma radicalmente diversa: quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati. E’ la Calabria dei poveri con deprivazioni materiali estreme, con disagi quotidiani e persistenti, con difficoltà ad alimentarsi con pasti adeguati, a vestirsi in modo decoroso, a dormire sotto un tetto sicuro. Sono tantissimi e in crescita. 

A differenza della prima, questa seconda Calabria è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Calabresi che praticano, quando possono, relazioni “verticali” individuali: con la Caritas, con la parrocchia, con i servizi comunali di welfare, con il gruppo di volontariato, con l’impresa di terzo settore, con la mensa sociale. 

A questi calabresi sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersi e difficile dunque da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets gialli né protettori; che non minaccia insomma l’ordine dominante.

I calabresi hanno perso la “voce”, sono diventati “ciechi dinanzi ai presagi”. L’interesse generale e i traguardi collettivi si sono dileguati nel particolarismo, nel ripiegamento in minute rivendicazioni; i presìdi della responsabilità civile si sono liquefatti al più nell’indignazione individuale, occasionale, passiva. 

I calabresi sembrano aver smarrito i sogni, i progetti di trasformazione, insabbiati in una sorta di “privatizzazione della speranza”, di graduale separazione delle aspettative individuali da quelle della società nel suo insieme, che genera a sua volta sfiducia nell’azione collettiva e disimpegno politico. Si avverte nelle pieghe del quotidiano una diffusione di calabresi cinici, di chi è convinto che si può crescere nel declino, che nel disastro ci sono convenienze da cogliere per migliorare la propria rendita di posizione, che la povertà è dei pigri e dei senza merito. 

4. Perché livelli di malessere e di ingiustizia sociali così estremi e “di massa” non determinano un altrettanto, estremo, conflitto sociale “di massa”?

Purtroppo, da tempo l’infrastruttura organizzativa sindacale e associativa è diventata fragile, cognitivamente in ritardo nel cogliere le nuove articolazioni della realtà, poco rappresentativa e oggettivamente inadeguata per concepire, far maturare e sviluppare forme di conflitto strutturato su larga scala, mentre i partiti si sono rinsecchiti e hanno via via perso presa sociale. Senza istituzioni adeguate è molto difficile che la povertà e le disuguaglianze si affermino come questione politica saliente, tanto più in un periodo storico di declino della dimensione della solidarietà sociale, di forte contrazione della partecipazione politica e civica e di “molecolarizzazione” della vita. 

Chiusi nei nostri gusci asfittici abbiamo smarrito la dimensione collettiva che teneva insieme un paese così diverso come l’Italia: l’anno persa i sindacati e i partiti ma anche le comunità che si riunivano intorno alle parrocchie.

Non pare dunque che esistano oggi le condizioni per attendersi in Calabria una ripresa del conflitto, tanto più sulle grandi emergenze sociali, come la povertà, la giustizia sociale e le disuguaglianze. E’ più facile che qui e lì si possano manifestare vampate di lotte e proteste, semmai accese ma di carattere transitorio, forme di dissenso e lamento ma senza conflitto. E’ invece molto più probabile che si accrescano l’exit, l’abbandono individuale, il rancore e la rabbia nei confronti delle istituzioni, l’ulteriore occultamento di segmenti importanti della società calabrese nelle nebbie della marginalità e della rassegnazione al peggioramento, della difesa del poco che si ha, piuttosto che la voice e l’azione collettiva.

5. In queste condizioni cosa è possibile fare? Come provare a contrastare il piano inclinato della crescita della marginalità sociale e delle povertà.

I calabresi poveri sono soli, atomizzati, abbandonati al loro destino. Nessuna politica pubblica organica a livello regionale, se non due Piani generici, burocratici e sottofinanziati, e affidati per lo più alla gestione dei comuni, peraltro alle prese con deficit strutturali di figure professionali e progettuali adeguate. Un vero paradosso: la regione con i livelli più alti di povertà ed esclusione sociale in Europa è anche quella con piani di contrasto più deboli e inadeguati.

L’entità, la crescente diffusione e la multidimensionalità della povertà dei calabresi presupporrebbero un piano di interventi articolato e di lungo periodo, almeno decennale. Un piano indirizzato prima di tutto a “scoprire” i poveri, ad ascoltarli, a capire i loro bisogni ma anche le loro aspettative, a verificare le loro condizioni di vita familiare. 

In secondo luogo, ci vorrebbe un piano nazionale di lotta alla povertà dei calabresi. La Regione Calabria non ha mostrato sinora di avere la sensibilità programmatica, le capacità progettuali e gestionali, oltre che le risorse finanziarie, in grado di disegnare e attuare un piano per contrastare la diffusione dell’impoverimento di strati sempre più ampi di società regionale.

Sarebbe necessario un piano nazionale che coinvolga nella sua definizione e costruzione i soggetti e le agenzie italiane che hanno accumulato conoscenze e competenze specifiche sul tema del contrasto alla povertà, che faccia tesoro delle migliori e più efficaci esperienze locali, che canalizzi in modo coordinato le risorse finanziarie destinate alla riduzione della povertà e dell’esclusione sociale, sia di quelle ordinarie, nazionali e regionali, sia di quelle comunitarie. 

Un piano nazionale che tuttavia non escluda dall’ideazione, programmazione e gestione la Regione Calabria, ma che, al contrario, coinvolga e accompagni organicamente le strutture regionali preposte alle politiche sociali, al lavoro, alla sanità, con l’intento di rafforzarle e dotarle permanentemente di competenze congrue con gli obiettivi di mitigazione del rischio povertà ed esclusione sociale, di monitoraggio e valutazione sistematici del fenomeno, di integrazione di politiche e di risorse, di manutenzione continua della governance tra le strutture regionali e locali coinvolte nei processi programmatici e attuativi, in particolare comunali.

Data la natura multiforme della povertà non basta una sola politica per combatterla. Sono necessarie invece combinazioni di politiche e misure “re-distributive”, quelle che utilizzano il prelievo fiscale nazionale per re-distribuirlo a favore di determinate categorie di persone e/o territori, e di politiche e misure “pre-distributive”, quelle che intervengono invece sui meccanismi di mercato per evitare la formazione di disuguaglianza di reddito e di nuove sacche di povertà. 

Ai poveri, ai senza reddito e con gravi deprivazioni materiali, è imperativo trasferire un reddito congruo con la loro fuoriuscita dalla condizione di povertà assoluta, sotto forma di reddito minimo o di cittadinanza. Un’integrazione di reddito è altrettanto irrinunciabile anche per i calabresi con un reddito familiare al disotto della soglia della povertà relativa, in modo da consentire loro una quotidianità dignitosa, civile. 

La redistribuzione è fondamentale per alleviare, già nel breve periodo, l’indigenza più cupa e per evitare che tanti altri calabresi vengano risucchiati nella spirale della povertà assoluta. Le risorse non mancano, basterebbe utilizzare in modo integrato e coordinato le varie fonti finanziarie disponibili a livello regionale, nazionale e comunitario. 

Ma re-distribuire non basta, perché, per l’appunto, la redistribuzione può a posteriori attenuare le disuguaglianze di reddito ma non è in grado di impedirne la loro formazione in quanto lascia immutata la struttura dei rapporti socio-economici, che genera una distribuzione del tutto iniqua delle risorse, permettendo ad una minoranza di appropriarsi delle risorse che andrebbero condivise con il resto della collettività.. 

Decisive, nel medio-lungo periodo, sono pertanto le politiche “pre-distributive”, quelle indirizzate a modificare i meccanismi di mercato che generano disuguaglianze. L’idea sottesa a queste politiche è quella di intervenire sui processi di formazione della ricchezza, come la tutela della concorrenza, la normativa sul lavoro, i bandi per gli acquisti pubblici, le politiche di sviluppo territoriale, per prevenire, piuttosto che compensare, le disuguaglianze di mercato e per assicurare uguaglianza di opportunità.

Includere le politiche contro la disuguaglianza nelle politiche contro la povertà comporta un cambiamento non di poco conto nel nostro guardare alla povertà. La povertà cessa di essere una condizione che concerne solo «loro». Diventa una condizione che concerne la struttura socioeconomica: dunque, riguarda «noi» tutti. Il che non toglie che servano anche politiche centrate sui poveri. Servono, tuttavia, dentro una prospettiva in cui siamo tutti coinvolti.

Purtroppo il governo attuale è molto lontano dal raccogliere un simile approccio. Ha abolito lo schema di reddito minimo che con tanta fatica e tanta lentezza era stato introdotto (a partire dal Rei e poi con il Reddito di cittadinanza), promuovendo invece una misura che sostiene le persone povere solo se hanno responsabilità di cura o abbisognano di cura, cozzando contro sia la Raccomandazione europea sul reddito minimo sia il Pilastro europeo dei diritti sociali. Ha cancellato il Fondo contro le povertà educative. Ha reso il mercato del lavoro ancora più precario, considerando comunista qualsiasi misura di intervento nell’economia che non sia decontribuzione o diminuzione delle imposte. Non mostra alcuna cura dei servizi universali. Siamo, dunque, ben lontani dal prendere sul serio la povertà.

Fondamentale è dunque l’inversione radicale delle politiche pubbliche degli ultimi decenni che non solo hanno contribuito a ampliare le disuguaglianze di mercato preesistenti ma ne hanno generate altre, rendendo la nostra società meno equa e in grado di assicurare a tutti una vita decorosa. La flessibilizzazione estrema del mercato del lavoro, la liberalizzazione indiscriminata dei movimenti di capitale, la tolleranza crescente verso sistemi di governance delle imprese centrate sulla massimizzazione del valore delle imprese a beneficio esclusivo degli azionisti e del management, la condiscendenza se non il sostegno delle posizioni di rendita e monopolistiche sui mercati finanziari, delle merci e dei brevetti, sono politiche che hanno generato disuguaglianze “inaccettabili” crescenti, anche in economie destrutturate e periferiche come quella calabrese.

6. Per concludere. I dati indicano in modo chiaro che siamo ad un punto limite: la società calabrese ha raggiunto picchi quanti-qualitativi di impoverimento e di potenziale deprivazione materiale incompatibili con la tenuta civile, sociale, democratica. 

Peraltro, la povertà individuale si accoppia in Calabria, e diffusamente nel resto del Mezzogiorno, ad una altrettanto grave povertà pubblica: educativa, scolastica, sanitaria, di welfare locale, di infrastrutture della quotidianità (acqua, raccolta dei rifiuti, scuole, decoro urbano, trasporti, asili, biblioteche, spazi pubblici per lo sport) che contribuiscono a dare dignità a chi li usa e far fare cose che altrimenti non si potrebbero fare con redditi bassi.

Nessuno però sembra accorgersene. Non gli analisti, ancor meno il residuo di infrastruttura collettiva sopravvissuta alla de-politicizzazione della vita pubblica della grande trasformazione neoliberista dell’ultimo quarantennio, in primo luogo dei partiti che hanno perso la capacità di vedere e intercettare i bisogni “nascosti”, di scovare e ascoltare i cittadini “invisibili” agli occhi di chi non vuol vedere e non vuol sapere. 

Non hanno occhi e orecchie neppure i calabresi “benestanti”, attenti a non perdere le posizioni acquisite e ad alimentare la narrazione fatua delle eccellenze e del dinamismo puntiforme e a derubricare le disuguaglianze sociali in semplici differenze. Si è smarrita la consapevolezza, da parte delle classi dirigenti regionali e della stessa maggioranza silenziosa dei calabresi, dell’impatto dirompente per la sostenibilità dell’insieme quando meccanismi di mercato e politico-sociali alimentano una estesa e crescente condizione di povertà e di esclusione sociale. Si è diffusa la convinzione, alimentata dal riduzionismo neoliberista, che, in fin dei conti, la causa prima della povertà sia da ricercare nei poveri stessi, nei loro demeriti, nel loro basso livello di istruzione, nella loro scarsa intraprendenza.

Il liberismo isola le persone, ci derubrica a imprenditori di se stessi, facendoci credere di avere più libertà. In realtà sfrutta la libertà: come il servo che strappala la frusta al padrone e si frusta da solo per essere libero. Ci sfruttiamo nella convinzione di essere sacerdoti di noi stessi.

La multidimensionalità della povertà presuppone una pluralità di politiche e misure di contrasto a livello nazionale e regionale. Ciò che conta, oltre all’efficacia dei singoli provvedimenti, è la coerenza e l’integrazione delle politiche, la loro complementarità. E ancor prima dovremmo dare voce e potere ai poveri, favorire e sostenere con adeguati strumenti pubblici, anche monetari, sostenere il protagonismo diretto dei poveri e dei ceti popolari.

La povertà non scompare con le sole politiche distributive: per sradicarla è essenziale cambiare le “regole del gioco”, occorrono misure strutturali che destabilizzino i circuiti sedimentati di produzione delle disuguaglianze, e dunque delle povertà, tanto più in regioni come la Calabria dove i meccanismi correnti inducono forme di povertà e di esclusione sociale estreme e insostenibili.

Dobbiamo nominare e fare i conti con il capitalismo, con questo capitalismo, con le parole di papa Francesco, dobbiamo misurarci con “quella struttura ingiusta.. dominata dal primato del danaro che collega tutte le esclusioni, rende schiavi, ruba la libertà, mitizza il progresso infinito e l’efficienza incondizionata”.

L’eccezionalità della sfida presuppone l’ideazione e la realizzazione di un piano nazionale pluriennale di lotta alle povertà dei calabresi; un piano centrato allo stesso tempo su interventi e misure rivolti a favorire la fuoriuscita dalla condizione di povertà assoluta e a impedire che altri calabresi vi precipitino, e su interventi e misure strutturali di politiche industriali, scolastiche, del lavoro, della pubblica amministrazione, rivolte ad inibire i circuiti che alimentano disuguaglianze e povertà. Un piano né dall’alto né dal basso ma costruito e realizzato con saperi, competenze, mezzi, attori diversi, centrali e locali; un piano che sia soprattutto capace di generare impegni condivisi sulla necessità e direzione del cambiamento.

Papa Francesco ci ha detto che davanti agli sfruttati, alle vittime del sistema, non bisogna restare «a braccia conserte», ma «passare dalla fase della resistenza a quella dell’appropriazione del potere politico, dalla lotta sociale alla lotta elettorale”, che “la carità è una bella cosa, ma serve la politica», serve attivazione, tessere relazioni solidali tra poveri, costruire consapevolezza, in una logica non paternalistica e assistenzialistica. Servono battaglie e lotte per il diritto alla casa per i senza tetto, per il welfare, per la difesa del reddito di cittadinanza universale e non categoriale, per i servizi sociali.

(*) già Docente di Economia Applicata – Unical