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Suor Geneviéve Jeanningros, l'angelo delle comunità LGBTQ+ e dei giostrai, davanti al feretro di Papa Francesco

L’ultimo saluto dell’ enfant terrible

«Eccola qua, la enfant terrible…” Così Papa Francesco amava chiamare, con affetto e un sorriso complice, Suor Geneviève Jeanningros, la piccola sorella di Gesù che ha scelto di vivere non tra le mura protette di un convento, ma nel cuore della strada. Oggi condivide la vita con le comunità LGBTQ+ e con i giostrai, tra le luci intermittenti del Luna Park di Ostia Lido, dove abita in una roulotte insieme alla consorella Anna Amelia.

Una presenza silenziosa e ostinata, fatta di ascolto, prossimità e fedeltà quotidiana. Suor Geneviève ha portato il Vangelo laddove spesso la Chiesa fa fatica ad arrivare. E proprio per questo Francesco la stimava profondamente: una donna libera, disarmata, capace di “stare” dove altri passano oltre.

Oggi, Suor Geneviève era lì, davanti alla bara del Papa, con lo sguardo carico di dolore e amore. Lo zaino sulle spalle — lo stesso che porta ogni giorno, fedele compagno di viaggio — sembrava quasi un simbolo sacro: tutto ciò che davvero serve, tutto ciò che è essenziale, ci sta lì dentro.

Il protocollo ha fatto per lei un’eccezione rara, permettendole di sostare accanto al corpo del Pontefice per diversi minuti. In quel silenzio, in quel pianto trattenuto e sommesso, c’era molto più di un semplice addio. C’erano anni di cammino condiviso, incontri ripetuti e mai formali, una confidenza costruita nel tempo, fin da quando Jorge Mario Bergoglio era ancora cardinale.

In quelle lacrime c’era l’amicizia. C’era un affetto quasi materno. E la profonda gratitudine di chi ha riconosciuto in Francesco un compagno vero degli ultimi. Di chi, come lei, ha sempre cercato il volto di Cristo là dove la vita fa più rumore, dove il dolore è più nudo, e dove il Vangelo diventa carne, polvere e abbraccio.

Con gli ultimi. Quegli ultimi che Francesco non ha mai smesso di mettere al centro. Gli ultimi che Suor Geneviève ha incontrato ogni giorno nel frastuono delle giostre, nelle mani callose dei lavoratori itineranti, nei bambini senza cittadinanza e nei volti segnati dalla fatica. Gli ultimi che il mondo rimuove, nasconde, ignora. Ma che per lei — e per Francesco — sono stati il cuore del Vangelo.

Francesco lo ha detto con forza fin dal primo giorno del suo pontificato: non si può servire Cristo senza servire i poveri. La Chiesa deve essere un ospedale da campo, non un palazzo dorato. E Suor Geneviève ha incarnato fino in fondo questa visione. Non a parole, ma con la vita.

Ha portato i poveri in Piazza San Pietro. È stata una presenza costante alle udienze del mercoledì. Portava con sé giostrai, poveri, nomadi, dimenticati. A ognuno cercava di far incontrare il Papa. Un ponte vivente tra la Chiesa e la strada. Nessun filtro, nessuna retorica. Solo Vangelo vivo.

In lei, molti vedono una Madre Teresa dei nostri giorni. Non per clamore mediatico, ma per scelta radicale: l’essere povera con i poveri. Vivere la fede in mezzo alla polvere, alla precarietà, ai sorrisi stanchi della periferia.

Oggi, il suo pianto accanto alla bara di Francesco è immagine potente di una Chiesa che piange un pastore, ma che sa che la strada continua. E quello zaino sulle spalle diventa icona: ci ricorda che il Regno dei cieli non ha bisogno di bagagli ingombranti. Basta poco: un cuore che ama, mani pronte a servire, piedi che non si stancano di andare verso l’altro.

Forse, in questo tempo spesso smarrito e diviso, sono proprio loro — gli ultimi — a mostrarci la strada. Non hanno nulla, eppure spesso custodiscono tutto. Sono loro che ci insegnano la speranza, la resistenza, la dignità silenziosa. Sono il volto stesso di Cristo.

E Suor Geneviève, con il suo zaino leggero e il cuore colmo, resta lì. A ricordarci che la santità, a volte, passa per le vie più impensate. È l’immagine di una Chiesa che non ha bisogno di orpelli per essere credibile. Solo di verità, di compassione, di strada.

Proprio come Francesco. Proprio come lei.