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L’appello di Mons. Serafino Parisi, vescovo di Lamezia

“Il respiro affannato degli ultimi al centro delle politiche sociali”

    

Un fine biblista, con radici profonde nella Calabria magno-greca ed una ricca esperienza di parroco, oggi alla guida della diocesi calabrese più baricentrica. Monsignor Serafino Parisi da due anni è il vescovo di Lamezia. Dalle rive dello Jonio a quelle del Tirreno, una missione – la sua – nel cuore fascinoso e delicato della regione. Partita da Santa Severina dov’è nato e passata anche da Crotone, dov’è stato parroco della Cattedrale.  Luogo dello spirito prima che geografico, la città di Santa Maria di Capo Colonna, non lontana da quell’Isola Capo Rizzuto che, da sola, ha dato alla Chiesa gli arcivescovi di Reggio Calabria, Fortunato Morrone; di Matera, Giuseppe Caiazzo e il Presidente della Pontificia Accademia di Teologia, Antonio Staglianò. Siamo nella stessa provincia crotonese dove sono nati Sant’Antero di Strongoli, San Zosimo di Mesoraca e San Zaccaria di Santa Severina: tre dei nove Papi che la Calabria ha dato alla cristianità.

 Ascolto e formazione sono, da subito, i cardini del suo episcopato. Perché in tutte quelle situazioni in cui si manifesta la fragilità della nostra condizione umana come la sofferenza, la mancanza di lavoro, la domanda di giustizia di pace, la morte – afferma il vescovo di Lamezia– la comunità cristiana deve esserci, per farsi carico delle macerie dell’umanità e ridare forma al volto dell’uomo”

Mons. Parisi, cos’è dunque la speranza?

Io, partendo dalla visione biblica della speranza, ho della speranza una concezione molto pratica. Perché nel sentire comune, è come se la speranza fosse procrastinare a dopo le attese. E invece anziché spostare al domani le attese, la speranza significa lavorare concretamente nel presente. Quindi certamente è un principio propulsore perché ti eleva da quella tomba costituita da una parola che noi usiamo sempre, “ormai”, “non c’è niente da fare…”. La speranza ti fa uscire da quel sepolcro dell’“ormai” e ti dice che comunque c’è una possibilità. E allora nel vedere la possibilità, con uno sguardo che si moltiplica all’infinito sulle potenzialità, poi la persona deve lavorare giorno per giorno. Quindi la speranza è concretezza dell’impegno, spendersi oggi per un futuro migliore, che si costruisce proprio sulla base di quello che oggi riusciamo a realizzare. Questa è anche la visione dei profeti: la profezia della Bibbia non è mai la previsione del futuro, o l’anticipazione di quello che sarà ma, paradossalmente, la comprensione del futuro in riferimento a ciò che oggi riusciamo ad annunciare e realizzare.

E a proposito di cose concrete, va in questa direzione pure la creazione della Scuola Biblica Diocesana?

Si, la Scuola Biblica nasce da una da una necessità diffusa, quella cioè della formazione di noi credenti, perché per lungo tempo … non dico che forse si è trascurata la formazione, però non è stata la scelta prioritaria all’interno delle nostre comunità. Ed ecco perché si sono moltiplicati quei fenomeni, un po’ da baraccone, incontrollati, come visioni, manifestazioni, dove la gente corre perché li prende come un elemento anche di compensazione. E invece la formazione ti dà la possibilità di avere intanto un pensiero critico, da credente, e per formarti questo pensiero critico da credente devi andare necessariamente alle fonti. Poter avere tra le mani la Scrittura è un grande vantaggio per noi credenti. Però leggendola con un metodo, leggendola con un atteggiamento critico, scientifico, perché leggendo una pagina in modo scientifico e critico, si guarda in profondità quindi si comprende molto di più rispetto a quello che a una prima lettura si riesce a comprendere.

La formazione per essere testimoni credibili?…

Dato che noi dobbiamo essere nel mondo e dobbiamo essere credenti credibili, questa credibilità si basa su tre elementi che la formazione può dare in modo molto specifico, preciso. Il primo elemento è quello della professionalità, il secondo elemento è quello della competenza, il terzo elemento è quello della coerenza.

Questo è anche il terreno sul quale appare chiaro che la Chiesa non è una ONG…

Dentro il nostro intervento nel mondo e nella storia, anche quando agiamo sul piano prettamente sociale, noi lo facciamo intanto perché abbiamo una visione della persona umana. E poi lo facciamo con una finalità che non si misura con il tempo che a noi è dato, ma con una finalità che va oltre il nostro tempo. Allora se noi perdiamo l’aspetto dell’ ”oltre il nostro tempo”, rischiamo di identificarci con benemerite ONG, rispetto alle quali però la Chiesa ha altro da dire, almeno dal punto di vista dell’annuncio del Vangelo e della pratica poi della visione del Vangelo stesso dentro lo storia.

C’è secondo lei, oggi, una richiesta di sacro?

Si, la richiesta di sacro c’è, c’è sempre stata. Oggi questa richiesta di sacro si coniuga anche ad un altro elemento del quale dobbiamo tenere conto, ed è la ricerca del sacro “alternativo”. È come se, per chi è alla ricerca del sacro, i riferimenti tradizionali della fede cristiana nella forma cattolica, qui da noi in Italia ad esempio, avessero già dato tutto e dessero adito alla ricerca di forme alternative. Mentre in realtà, guardando dentro l’idea di sacro che c’è per esempio nella Scrittura, nei Padri della Chiesa, nella tradizione ecclesiale, allora si può scoprire quell’anelito che c’è dentro ogni uomo. Questa nostra visione può portare al recupero di una visione originaria che è molto vicina alle esigenze dell’uomo di ogni tempo. Sicché potremmo dire che ci deve essere una scoperta del sacro archetìpico, quello che nasce proprio dall’origine, allora lì l’uomo, l’uomo di sempre, soddisfa il suo anelito.

Tornando all’organizzazione della speranza, a Trieste le Settimane sociali della Chiesa hanno rappresentato secondo lei una svolta?

 Si, hanno dato un po’ più di concretezza … però anche lì poi, tutto è affidato all’interpretazione delle singole realtà ecclesiali, e molte volte purtroppo anziché essere un fatto condiviso, è relegato alla sensibilità del singolo vescovo.

“Avendo noi un’idea di polis”, lei ha organizzato un Forum di tre incontri: a cosa tendono, siamo ancora una volta al famoso pre-politico?

Nell’immediato, nascono dal fatto che la città di Lamezia nella prossima primavera dovrà eleggere il sindaco. Allora, dato che ci sono a volte non delle pressioni ma … ognuno vorrebbe prendere un pezzo dall’ambiente ecclesiale, per mostrarsi vicino o per renderlo proprio, allora diciamo subito che qui ognuno è libero di fare le scelte partitiche proprie, quindi di votare quello che vuole, però questo non vuol dire che la Chiesa invece non sia interessata alla politica. Questo interessamento noi lo esprimiamo per Lamezia, vorrei dire pure per Maida il cui consiglio è stato sciolto. E lo abbiamo fatto con largo anticipo, in modo tale che poi col nuovo anno ci possa essere massima libertà nelle scelte.

Ma c’è anche un motivo di fondo…

Certamente, perché la politica è un ambito all’interno del quale come cittadini e poi anche come cittadini credenti, noi vogliamo e dobbiamo esserci, in forza del nostro battesimo, e qui c’è una riscoperta del nostro battesimo: il dato della profezia è indubbio, però noi siamo anche costituiti,  oltre che sacerdoti e profeti, anche re. Ciò significa che a noi la nostra realtà appartiene, noi ci siamo dentro, non possiamo fare finta di non interessarci alla realtà. E dunque noi come credenti e come battezzati, interveniamo in questo contesto.

Come?

Favorendo un dialogo con persone, di grande spessore, che sono venute a proporre il nostro punto di vista a partire dalla Dottrina sociale della Chiesa sulla polis. Persone disponibili anche a dialogare sul perché ci sia una idea di polis. Perché quello che noi osserviamo dal nostro punto di vista ecclesiale è che a volte manca proprio il riferimento ampio ad una visione di polis. E abbiamo usato volutamente il termine polis e non civitas, perché la civitas sa già di determinazioni; invece, la polis che richiama pure la politica, dà l’idea proprio di una visione ampia.

E qual è il contributo che la Chiesa può dare?

Anzitutto, mettere al centro la persona umana. Se le nostre politiche sociali partissero dal respiro affannato degli ultimi, sarebbe il modo migliore per dirci una società civile. Noi questo lo dobbiamo dire. Gli ultimi: anche qui una forte attenzione ai temi legati alla sanità, un accesso alla sanità! Noi a Lamezia abbiamo, con la Caritas, favorito per esempio l’apertura di un ambulatorio solidale, abbiamo dato i locali, i medici si sono costituiti in associazione, ma noi paghiamo le utenze, facciamo il massimo che possiamo fare. È impressionante: da febbraio del 2023, io ho i dati fino ad agosto del 2024, ci sono stati più di 4.500 visite di gente, fra l’altro, che veniva vista da un medico per la prima volta nella vita, persone di 60 anni… Questi non hanno mai avuto accesso alle cure!

Immigrati?

Immigrati, migranti, ma anche italiani. Il grosso è costituito da italiani, ci sono pure i rom. Occorre una sanità che possa davvero prendersi cura della persona. Io do un significato molto particolare al “prendersi cura” rispetto alla cura, perché la cura è la cura della malattia, certamente, l’intervento immediato, l’intervento professionale …  ma “prendersi cura” è centrale, farsi carico e dichiararsi responsabile non solo del presente ma anche del futuro di quella persona

C’è poi anche la questione della scuola. Il ridimensionamento scolastico: ma come si può privare un paese di un’area interna (che magari d’ inverno vive pure i disagi della neve) della scuola, per salvare i numeri? Oppure, pensiamo che qui hanno fatto degli istituti con più di 2000 studenti con 300 e dispari insegnanti: ma come si fa a coordinare? È vero che si dà forse l’istruzione a tutti, però per togliere qualche cosa poi a ciascuno. Noi dobbiamo essere formati ad affrontare anche questa realtà.

C’è una domanda che si ripropone ciclicamente, forse avendo davanti l’idea di un partito…  Ma l’impegno dei cattolici in politica come deve essere?

Il sogno di un partito unico dei cattolici è ormai un sogno svanito. Però io condivido la posizione che fu quella del padre gesuita Bartolomeo Sorge, che diceva che il problema non è mantenere tutti dentro un partito dei cattolici, che oggi sarebbe improponibile. È invece mantenere la coerenza del cattolico, dentro alcune formazioni che ti danno la possibilità di esprimerti cattolicamente, senza pregiudizi di tipo ideologico e senza poi accuse di cesaropapismo oppure di ingerenze. Io credo che ancora in Italia questa maturità non ci sia.

Gino Scalise, lei lo ha conosciuto molto bene, s’impegnò in politica fino a diventare sindaco di Scandale nella prima metà degli anni ’70 del secolo scorso. Era uno che credeva nella politica come servizio alla comunità. Ed era un oblato laico di don Mottola.

Quel periodo è stato segnato a Scandale da due personaggi: uno è lui, Gino Scalise; l’altro personaggio è il parroco storico di Scandale, don Renato Cosentini, quello che aprì la Casa di Carità e col quale Gino Scalise ebbe anche degli scontri, da presidente dell’Azione cattolica, perché non risparmiava niente a nessuno e si faceva sentire. Erano tempi diversi… Per esempio, oggi sarebbero improponibili alcune cose che si facevano allora, quando si trattava di rispettare non tanto la freddezza della norma di legge – per esempio con alcuni bambini e bambine orfane, che venivano portate in questa Casa, che venivano affidate anche dal tribunale – ma si voleva dare la possibilità alla norma di superare sé stessa, mettendo dentro quella norma la finalità vera, cioè quella dell’amore che supera a volte la freddezza di alcune regole. La norma era un riferimento certamente di tipo legale, ma che doveva servire, anche superando sé stessa, a fare in modo che la giustizia venisse affermata. Quindi c’era una grande visione e Gino Scalise è stato uno di quelli che su questo ci ha scommesso tantissimo. Anche nella gestione del Comune a Scandale lui ha fatto prevalere questo aspetto che noi diciamo di umanità all’interno della norma, che è stato lo stile che ha caratterizzato la sua vita.

L’equità, come giustizia del caso singolo…

“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei Cieli..”

Potrebbe Gino Scalise essere additato come esempio di cattolico che si impegna in politica?

Si. Ed io spero che in un futuro prossimo la testimonianza da lui vissuta – l’ho anche detto scrivendo la prefazione ad un libro su di lui, scritto da Iginio Carvelli – possa essere vagliata per una verifica della sua reale santità. Gino Scalise ha vissuto la sua vita, intanto, nell’ultima fase, per la mamma che ha curato fino all’ultimo. Poi, lui aveva sofferto da ragazzo, era stato a Roma avendo un problema motorio; quindi, conosceva la sofferenza perché l’aveva vissuta sulla pelle; e successivamente, ha vissuto totalmente dedicato agli altri. Io so – e spero di poterla dare questa testimonianza – che il suo stipendio di sindaco veniva distribuito agli indigenti e quando è morto, la casa l’ha lasciata alla persona che l’accudiva ed alla sua famiglia che ne aveva bisogno.

Potrebbe dunque partire per lui la causa di beatificazione?

Certamente. Gino peraltro era padrino di cresima di un sacerdote crotonese, don Simone Scaramuzzino il quale conserva tantissime lettere di Scalise di grande interesse. Io mi ero mosso già da parroco, adesso potrò essere ascoltato da vescovo ed al nuovo arcivescovo di Crotone dirò: “Noi abbiamo un bellissimo esempio di cristiano”.

Lattenzione ai giovani, lei sostiene, deve tradursi in iniziativa “con i giovani”, più che per i giovani…

Infatti, abbiamo voluto iniziare degli incontri “con i giovani” intanto come stile partecipativo: non è qualche cosa che noi imponiamo, oppure vogliamo dire a loro, ma che vorremmo condividere con loro. Scegliendo delle “parole per la vita” individuate da loro. Sono già venute fuori tante parole però alcune sono ricorrenti, che mi hanno fatto davvero tanta impressione, positivamente.

Per esempio, “famiglia”. Un altro tema forte, “coraggio-felicità”. Altro tema ancora, ad esempio è cadere: qualcuno “cadere”, qualcuno “caduta” (detto da persone non vicine, eh). E un altro tema che mi ha colpito: più di uno ha parlato di serenità. Quindi c’è una ricerca. E poi: il bisogno di relazioni vere.

Si sente dire di continuo che oggi le chiese sono vuote. Ma forse le persone vanno cercate. Magari le chiese sono vuote, però altri luoghi, come gli incontri con i giovani, sono pieni…

Si, io ho un’idea su questo. Quando si parla di marketing si fa riferimento alla “profezia che si auto-avvera”. È come dire: “Se vado là cado, se vado là a cado, se vado là cado”… e va a finire che arrivo là e cado davvero. Secondo me con i giovani abbiamo fatto la stessa cosa: “Noi li perdiamo, noi li perdiamo, noi li perdiamo” e dietro questo ritornello alla fine li abbiamo persi davvero, perché poi non ci siamo stati più, anziché andarli a trovare li abbiamo aspettati.

La guerra. Può sembrare ancora a qualcuno che, a due ore d’aereo di distanza, due guerre non ci riguardino più di tanto? E la pace non ci riguarda?

Purtroppo ci riguarda anche la guerra, perché ne paghiamo le conseguenze intanto nel clima generale: possiamo constatare tutti che è cambiato, c’è come una cappa su di noi, soprattutto quando consideriamo che pare siano state usate armi chimiche; c’è lo spauracchio del nucleare, insomma si crea una cappa che è quella che alimenta un’angoscia che già di suo va avanti. Quindi la guerra poi si ripercuote quotidianamente dentro le nostre vite, non solo sul piano strettamente economico, ma anche sul piano psicologico e relazionale. Ecco perché con la guerra non vince nessuno, ma perdiamo tutti.

Ma c’ è un compito che noi possiamo svolgere anche a questa distanza?

Il mio mantra è quello di dire, sempre, che la pace si costruisce a partire dalla vittoria sulle nostre piccole guerre quotidiane. Perché la pace è certamente un dono messianico, però è anche un impegno a costruire la pace. Ed è anche uno stile. Lo stile aggressivo, lo stile sempre oppositivo o magari di prevaricazione, a volte giustifica la guerra. Se non le grandi guerre perché quelle ci fanno paura, però le piccole guerre sì.  Quindi il lavoro che dobbiamo fare è quello di fare in modo che la pace, per la quale dobbiamo lavorare, diventi uno stile: uno stile che parta dalla bellezza delle relazioni.