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La S. Messa per l'inizio del Pontificato di Leone XIV

Amore e unità, alle radici della Chiesa

“Amore e unità: sono queste le due dimensioni della missione affidata a Pietro da Gesù”. Arrivano presto – nell’omelia di Papa Leone XIV nella S. Messa per l’inizio suo del Ministero Petrino quale vescovo di Roma – le due parole che appaiono come le più esplicative del suo programma di Pontefice. Ci sono i riferimenti al “suo” Sant’Agostino, alla morte di Papa Francesco (evocato anche nell’espressione “fratelli tutti”), al Conclave che lo ha scelto (“vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia”). Quando  poi descrive il compito demandato a Pietro (quello di “amare di più e di donare la sua vita per il gregge”) usa un termine, “amore oblativo”, che suona familiare ai seguaci del beato Francesco Mottola.

  Ma  è quando viene ai concetti identificativi del suo mandato, che Papa Prevost spiega ripetutamente il significato di quelle due parole: amore e unità. “La Chiesa – ancora S. Agostino – consta di tutti coloro che sono in concordia con i fratelli e che amano il  prossimo”. Subito dopo: “Questo, fratelli e sorelle, vorrei che fosse il nostro primo grande desiderio: una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato”. E ancora: “E questa è la strada da fare insieme, tra di noi ma anche con le Chiese cristiane sorelle, con coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine (di nuovo Sant’Agostino) della ricerca di Dio, perché si realizzi quell’unità che non annulla le differenze, ma valorizza la storia personale di ciascuno e la cultura sociale e religiosa di ogni popolo”.

  Con la solenne liturgia di questa mattina in Piazza San Pietro, con l’imposizione del pallio, la consegna dell’anello pescatore, con la stessa omelia, con il saluto delle delegazioni dei governanti di tutto il mondo, inizia ufficialmente il ministero del Papa Leone XIV.

E finisce quel periodo della transizione da un Papa a un altro, considerato inevitabilmente – ad esempio da Salvatore Settis (La Stampa, 15-5-2025) – come “nulla di più rivelatore” per la Chiesa cattolica stessa. Quel periodo, come osserva l’intellettuale calabrese medesimo, “seguito non solo da fedeli più o meno praticanti, ma anche da immense folle di agnostici, anticlericali, atei dichiarati”. Quel periodo in cui “tocchiamo così con mano uno dei molti paradossi in cui viviamo: il contrasto fra l’evidente bisogno di spiritualità (anche nelle nuove generazioni) e il crescente allontanarsi dalle religiosità tradizionali”. Considerazioni, queste e quelle successive, che inducono Settis a profilare un orizzonte di attese,  alle quali “deve saper parlare la Chiesa,  senza erigere muri tra chi professa una piena fede (anche nell’autorità del Papa) e chi ne osserva e custodisce da lontano i riti e le speranze”

  Un compito, verrebbe da dire, che se da oggi spetta a Papa Leone XIV, spetta anche e soprattutto alla sua Chiesa: da sempre formata dalla comunità dei battezzati, da oggi guidata da Robert Francis Prevost. E in questa Chiesa ci siamo anche noi.