«Io spero Te da Te Stesso» La speranza nella Bibbia
Fede e speranza
Nella Bibbia il concetto di sperare (attendere, essere proteso) è strettamente connesso con quello dell’avere fiducia (trovare rifugio, sentirsi al sicuro, perseverare). La speranza ha il suo fondamento in Dio e nella comunione con Lui. La precisazione è importante, dato che ci può essere una speranza fallace, quella che si fonda in ciò che non è Dio: essa conduce all’idolatria ed alla rovina.
Da un paradiso all’altro
Fin dall’inizio, dopo il peccato dei progenitori, il Signore infonde nel genere umano la speranza nella sconfitta del peccato e della morte. Il peccato di Adamo, che porta alla perdita del paradiso, non rappresenta la fine di tutto. Un discendente della donna prevarrà sugli oppositori del piano divino e ripristinerà la condizione originaria dell’uomo (Genesi 3,15). Così la storia è protesa verso la futura realizzazione del disegno divino: a coloro che hanno lottato contro il male sarà dato in premio «di mangiare dall’albero della vita che sta nel paradiso di Dio» (Apocalisse 2,7). La Bibbia concepisce la parabola dell’uomo sulla terra come un percorso da un paradiso all’altro: da quello dell’Eden a quello della nuova Gerusalemme.
«Il Signore provvederà, figlio mio»
Il rapporto tra fede e speranza segna l’esperienza religiosa dei grandi personaggi biblici. Gli esempi più illustrativi sono Abramo per l’Antico Testamento, e la Vergine Maria per il Nuovo. Abramo crede nella promessa della discendenza anche quando il Signore gli chiede di offrirgli il figlio Isacco in sacrificio (Genesi 22). «Il Signore provvederà l’agnello, figlio mio». Maria supera le prove e non perde la speranza di fronte alla passione e alla morte del Figlio, credendo nelle parole dell’Angelo: «Egli sarà Santo e chiamato Figlio di Dio». Ella è modello e di speranza anche perché, oltre a viverla pienamente, nel Magnificat la propone come chiave di lettura della storia: «(Dio) ha abbassato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».
Speranza nel Salvatore
Nella Bibbia si susseguono periodi bui, di grande crisi, durante i quali Dio invia i profeti per rinvigorire la speranza del popolo. Geremia ed Ezechiele annunciano un nuovo intervento di Dio a favore del popolo, basato su presupposti nuovi, in base ai quali l’alleanza con Lui non verrà mai più meno: Geremia il dono della Legge scritta nel cuore di ciascuno, il dono della conoscenza o dell’esperienza di Dio, il perdono dei peccati (Geremia 31,31-34); Ezechiele, dal canto suo, il dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo (Ezechiele 16). Così il popolo è chiamato a superare nella speranza il dramma della distruzione e dell’esilio con occhi nuovi, nella consapevolezza che Dio è all’opera.
I profeti, inoltre, si fanno portavoce della speranza nella venuta del Messia. Tale speranza prende connotazioni differenti. In alcuni testi si annuncia la venuta del Messia come discendente di Davide, forte e glorioso; in altri, si parla del Messia come Servo che realizza il progetto divino mediante la sofferenza ed offre la propria vita in espiazione dei peccati del popolo («dalle sue paghe siamo stati guariti»; Isaia 53); in altri ancora, è lo stesso Signore che sarà re, come Buon Pastore, del suo popolo, strappando le pecore del suo pascolo dai cattivi pastori che lo hanno fatto sviare e portato alla rovina (Ezechiele 34). A costituire un denominatore comune tra questi brani è la speranza nella realizzazione completa del progetto salvifico in un futuro non precisato ma che tuttavia è già presente nella fede. Tale futuro si è realizzato in Gesù Cristo, Nuovo Davide, Buon pastore e Servo sofferente.
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?»
La Bibbia insegna come conservare ed alimentare la speranza nel contesto della sofferenza e della prova. La vicenda di Giobbe è emblematica al riguardo. In Giobbe 42, 5-6 egli rivolge al Signore queste parole: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò io provo consolazione sopra polvere e cenere». Frase densa di significato, con la quale Giobbe mostra di essere arrivato ad accogliere la tribolazione nel suo cammino di fede, animato dalla speranza: arriva ad una nuova visione delle cose, senza più ribellarsi alla sofferenza, accettando la sua vulnerabilità e caducità. A Giobbe si può associare Paolo per il Nuovo Testamento, anche se le sofferenze di Paolo sono di tutt’altro genere, in quanto legate al suo ministero apostolico. Egli, in mezzo a tante prove, sofferenze, persecuzioni, minacce di morte, mantiene viva la speranza, grazie alla consapevolezza di essere amato da Dio e di essere oggetto dell’azione graziosa e vivificante dello Spirito Santo (Romani 5,3-5). Egli rilegge teologicamente la sofferenza di coloro che sono uniti a Cristo: la sofferenza rappresenta, come le doglie del parto, un passaggio necessario perché si abbia la vita. Così, i cristiani nella sofferenza attendono la redenzione del loro corpo che si realizzerà alla fine dei tempi con la risurrezione finale. Da qui il dono della perseveranza o della pazienza (Seconda Lettera ai Corinti 1,8-11).
Speranza oltre la morte
Alle porte del Nuovo Testamento sono affermate la fede nell’immortalità dell’anima e quella nella risurrezione dei corpi. Nel Secondo Libro dei Maccabei, a proposito dei sette fratelli e della loro madre condotti al martirio per non aver voluto mangiare carne immonda, si afferma che è preferibile la morte piuttosto che trasgredire la Legge. La ragione è che «da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati». Essi sono pianamente convinti che Dio li «risusciterà a vita nuova ed eterna» (cap. 7). Questa medesima certezza nella risurrezione è attestata per i giusti in Daniele, diversamente dagli empi, i quali devono aspettarsi la corruzione e la morte (Daniele 12, 2-3). In entrambi i casi la fede nella risurrezione dopo la morte nasce in un contesto di persecuzione, nel quale i credenti sono chiamati a restare fedeli al Signore fino alla fine.
Paolo insiste sulla risurrezione dei morti, in particolare contro alcuni che a Corinto la mettevano in dubbio (Prima Lettera ai Corinti 15,12-34). Egli rilegge il dato tradizionale alla luce della risurrezione di Cristo: poiché tra gli uomini e Cristo esiste una solidarietà a livello della partecipazione alla stessa umanità, come è risorto Cristo, così risorgeranno tutto coloro che vivono in lui. Egli è la primizia di coloro che sono morti. Il concetto di «primizia» rimanda al dono di parte del raccolto offerto al Signore nel tempio; in quest’offerta, con la quale veniva prefigurato tutto il raccolto, ci si augurava la benedizione divina, l’abbondanza dei frutti e la fecondità del suolo. Se Cristo è primizia, nel senso detto, allora tutti siamo uniti a Lui Risorto: siamo figli della risurrezione! Dall’evento della risurrezione di Cristo dipende non solo il compimento del piano divino, bensì la stessa vita cristiana quale vita sostanziata, per mezzo dello Spirito vivificante, dalla risurrezione di Cristo. Si tratta di una dimensione costituiva del credente che tende all’unione con Cristo e a disfarsi gradualmente del corpo corruttibile e mortale.
Speranza e tempo presente
Fin da ora i battezzati vivono nella prospettiva del compimento, che riguarda la trasformazione del loro corpo ad immagine del corpo glorioso di Cristo. Lo Spirito, ricevuto nel battesimo, permette loro di vivere nel tempo ma come se questo sia già giunto alla fine o si sia compiuto. San Paolo specifica in modo mirabile questo aspetto della speranza (Lettera a Tito 3,4-7).
«Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73,28)
Ci si chiede come il cristiano debba vivere il «frattempo», il tempo tra l’oggi e il compimento. San Paolo ritiene che il battezzato deve tener fermi tre orientamenti essenziali fondati sulla speranza. Innanzitutto, deve vivere in e con Cristo: l’appartenenza a Cristo fa di lui quello che è; fa di lui un salvato, pieno di speranza (Efesini 2). Prima di conoscere Cristo, gli Efesini erano «senza speranza»; ora che hanno rinunciato agli idoli sono colmi di speranza. Un altro orientamento riguarda la sostanza stessa della vita cristiana che è, come si diceva, un passaggio, un cammino verso la vera patria, che è il Cielo. San Paolo insiste su questo punto utilizzando per i cristiani il termine «patria» nell’espressione «la nostra patria è nei cieli» (Filippesi 3,20), un termine che denota il diritto di cittadinanza, in quel caso quello che la madrepatria Roma garantiva ai cittadini di Filippi. Ciò significa che le loro opere, pensieri, parole, sentimenti devono essere conformi alle realtà celesti, in particolare a Cristo attesto proprio dai cieli e che, venendo, trasformerà il loro corpo mortale. Da qui il terzo orientamento, che costituiva l’anima della vita cristiana dei primi tempi e che ha continuato a informare la vita della chiesa mediante i sacramenti e l’annuncio della Parola: i cristiani sperano del ritorno di Cristo, culmine e compimento del piano di Dio. Essi sono coinvolti in questo dinamismo senza del quale la loro vita perderebbe di consistenza e che in ultima analisi, come insegna Paolo ai Tessalonicesi, consiste nel sperare il Signore stesso (Prima Lettera ai Tessalonicesi 5,8)
Eucaristia e preghiera
Ad alimentare la speranza concorrono l’Eucaristia e la preghiera. L’Eucaristia perché con essa si riceve Cristo e perché il dono della Sua persona è in funzione dell’incontro con Lui nella Gloria. Per mezzo di Lui si è trasformati gradualmente in Lui. Come insegnano i maestri spirituali non è Lui a diventare noi, come avviene quando ci nutriamo di pane materiale, ma siamo noi che diventiamo Lui. La dimensione della speranza propria dell’eucaristia è evidenziata dalle parole di Gesù poco prima di benedire il calice: «In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio» (Marco 14,25). Con queste parole, tuttavia, Gesù allude anche alla sua morte, volendo sottolineare che il piano di Dio si realizzerà nonostante la sua morte.
Oltre all’Eucaristia, alimento della speranza è la preghiera. Peraltro nel Salterio non poche volte il salmista invita alla lode riconoscendo il Signore come colui che lo libera e lo salva e gli si fa presente nelle angustie (Salmi 16; 42-43; 46; 71). La speranza tiene vivo il desiderio di Dio e lo fa sviluppare gradatamente in modo che al termine della vita, quando si è chiamati, il desiderio diventa tanto grande da poter accogliere il Signore che viene (cfr. Benedetto XVI, Spe Salvi n.33).
Conclusione
Concludendo, è bene insistere su due aspetti. Il primo è che la speranza non equivale all’ attesa, ma consiste nel contenuto di ciò che si attende percepito quale realtà presente e viva nell’anima del cristiano. Quando si parla di speranza, perciò, non bisogna pensare a ciò che verrà dopo, ma a ciò che è già presente nella fede. Il secondo aspetto riguarda proprio quest’ultimo punto. La speranza è legata alla fede. Chi è senza fede è senza speranza. Poiché la fede è relazione personale con il Signore, intimità con Lui, la speranza cresce in proporzione ad essa. Questo legame tra fede e speranza è illustrato in modo vibrante ne La preghiera di confidenza di San Claudio la Colombière S.I, in cui l’orante, rivolgendosi a Dio Padre, con la gioia negli occhi, conclude: «Ho tanta fiducia che Tu mi amerai sempre e che anch’io ti amerò per sempre. E per portare al più alto grado questa mia fiducia, o mio Creatore, io spero Te da Te stesso, per il tempo e per l’eternità. Amen».