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“I miei tre anni a fianco del Vescovo Girolamo Grillo”

Ringrazio, anzitutto, il neo Direttore della rinomata e apprezzata rivista “Parva Favilla”, Pasqualino Pandullo, il quale, con tanta amabilità e attenzione verso la mia povera persona, mi ha sollecitato a scrivere questa testimonianza sull’indimenticabile e compianto Mons. Girolamo Grillo, con il quale ho condiviso 3 anni della mia vita sacerdotale.

Era il 1 luglio 1997 allorquando fui accolto nella Diocesi di Civitavecchia-Tarquinia, dopo aver ottenuto il permesso dal mio Vescovo Mons. Augusto Lauro, per prestare il servizio pastorale come Vicario Parrocchiale nella Parrocchia Santi Martiri Giapponesi.

Dopo circa 6 mesi, Mons. Grillo mi convocò in Episcopio per chiedermi la disponibilità di assumere l’incarico di Segretario personale. Io rimasi stupito dinanzi a tale richiesta. Lui, però, mi rassicurò, dicendomi che conosceva bene mio zio sacerdote, Don Pasqualino Tamburrino, (con il quale aveva trascorso gli anni della preparazione al sacerdozio nel Seminario Pio XI° di Reggio Calabria) e che, dopo attenta riflessione, era giunto a questa decisione.

Accettai l’incombenza con trepidazione ma con spirito di fede, certo che il Divin Paraclito non fa mancare la sua continua assistenza su coloro che vengono scelti per una missione nella Chiesa.

Notai subito la sua profondità d’animo e di pensiero, di umanità e il suo alto spessore spirituale e culturale. Aveva uno stile di vita metodico e coraggioso. Fedelissimo ai suoi orari di preghiera, di studio e di ministero apostolico. Curava molto la predicazione e l’evangelizzazione, servendosi, assiduamente, dei mezzi di comunicazione sociale ed era anche ricercato dalle anime per la direzione spirituale.

Essendo stato per molti anni figlio spirituale del Beato Don Francesco Mottola e anche Direttore di questa rivista, nonché Segretario Aggiunto del Comitato Permanente delle Settimane Sociali e, durante tutto il pontificato dell’illustre e Santo Pontefice S. Paolo VI° avendo prestato servizio nella Segreteria dello Stato Vaticano, maturò una ricca, solida e proficua esperienza ecclesiale.

Il Beato Don Mottola, ricolmo della divina grazia, aveva forgiato il suo animo, aiutandolo a vivere il ministero sacerdotale nella “totale distruzione di se stesso” e a confidare nella materna intercessione della Vergine Madre. Le sublimi, magistrali e sinfoniche pagine sul “silenzio” scritte da Don Mottola e diffuse ovunque per irrorare gli animi assetati di Assoluto, attirarono il giovane Don Girolamo e lo spinsero a inoltrarsi nell’eterna e santa pace Trinitaria, che fa scalare le vette dell’Amore, ove trionfa la Croce, supremo sigillo della Carità.

Mi raccontava tutto ciò con gli occhi pieni di luce, bagnati da qualche lacrima, spiegandomi che l’esercizio ascetico e la lotta contro il suo orgoglio e la sua superbia fu duro, ma incoraggiato e supportato dalla preghiera e dall’attraente zelo del Beato, il quale per iscritto o durante la direzione spirituale gli ripeteva spesso che “la più grande e la più bella grazia che Dio possa concedere è la conversione del cuore e l’abbassamento dell’alterigia”.

Tale distruzione di se stesso iniziò a sperimentarla in tante umiliazioni che subì da sacerdote e da vescovo e che affrontò affidandosi a Dio e a persone dedite alla vita interiore e alla sofferenza. E’ doveroso menzionare la straordinaria e significativa assistenza che ebbe da due Suore Rumene, Sr Marianna e Sr Teresa, le quali, formate dalla loro Fondatrice Madre Ionela (un’anima mistica che per più di 40 anni si è nutrita solo della SS.ma Eucarestia e della quale è in corso la causa di beatificazione), con tanta umiltà, abnegazione, laboriosità e con silente, sollecito e amorevole servizio contribuirono, notevolmente, a sostenerlo nell’immolazione di tutto se stesso, fino all’ultimo istante della sua vita.

La sberla più umiliante”, come lui la definiva anche nella supplica composta alla Madonnina di Civitavecchia, la ricevette quando visse l’esperienza della lacrimazione di sangue della statuina nelle sue mani. Com’è risaputo, osteggiò le presunte lacrimazioni, pensando che si trattasse di uno dei tanti malefici trucchi umani, che avrebbero sviato tante anime dalla sana dottrina, orientandole verso una fede sentimentale e sensazionale.

Quale vigile Pastore, pertanto, si prodigò affinchè tutto si dissolvesse come una bolla di sapone. La determinazione con la quale condusse l’inizio della vicenda si assopì, però, dinanzi all’inverosimile che gli capitò nelle sue mani. Da quel momento iniziò un cammino intenso di tribolazione interiore e di conversione.

Ogniqualvolta lo trasportavo con la macchina verso Roma, nelle Parrocchie o in altri luoghi, mi accorgevo che era assorto con lo sguardo e con la mente nel suo silenzio e nella sua riflessione. Tranne qualche domanda di circostanza o riferita agli appuntamenti curiali e pastorali, i nostri viaggi erano scanditi dalla preghiera del S. Rosario, dal silenzio e, talora, da sporadiche a argute ‘battute’.

Come scriveva Giuseppe Micieli nella prefazione al libro di Mons. Grillo, Cristo non si è fermato a Eboli” “egli conobbe, come pochi, la poesia del pane nero, la sudata sofferenza del sacrificio non scelto, l’avarizia della zolla, il pianto di partenze non volute; conobbe il mistero della pastoralità e sapeva come fosse drammatico non poter dare a chi chiede il brivido della serenità attraverso il lavoro”.

Provenendo da un‘umile famiglia di Parghelia (CZ), apprese “l’arte del sacrificio e del dolore” e, durante il periodo vissuto accanto alla sua amabile persona, spesso, mi rendevo conto che affrontava le incomprensioni, le calunnie e i contrasti con spirito di fede matura e impavida, trasmessagli dai suoi cari genitori. Confidandogli alcune mie sofferte esperienze mi rispondeva fermamente: “non sei solo tu a soffrire nel mondo, c’è tanta gente che soffre in silenzio più di me e di te”. La lezione morale era chiara e ineccepibile.

Il suo ministero apostolico si contraddistinse per la fedeltà alla Chiesa e per la difesa della giustizia e dei diritti delle fasce più bisognose della società. Pochi conoscono il suo cuore, che a primo impatto poteva sembrare un po’ chiuso, ma nascondeva un’adorabile carità. Molti furono i poveri soccorsi nella loro dignità e indigenza, ricevendo sostegno anche con esplicite denunce attraverso i mezzi di comunicazione, soprattutto con la stampa di articoli pubblicati da noti quotidiani, atti a sensibilizzare l’attenzione e il sollecito intervento di imprenditori, amministratori e governanti. Nell’assoluta discrezione soccorreva famiglie cadute nella miseria più assoluta. Quelle lacrime di sangue che aveva visto versare dalla Madonnina era un interrotto richiamo per lui ad essere accorto e premuroso nei confronti del sangue che, quotidianamente, versavano gli oppressi, i perseguitati, gli sfruttati, gli ammalati e le famiglie prive di risorse spirituali, morali ed economiche.

Quando giunse il momento di ritornare nella mia diocesi di S. Marco Argentano-Scalea, indirizzò una lettera a Mons. Domenico Crusco, pregandolo di concedermi altre due anni di permanenza a Civitavecchia. Mons, Crusco concesse solo un anno. Io obbedii al mio Vescovo e il primo gennaio 2001 rientrai a S. Marco.

 Mons. Grillo, vista la mia ferma decisone, disse: “Va, figlio mio. Ricordati che ti ho voluto bene. Ti ringrazio di tutto ciò che hai fatto per me e per la nostra diocesi. Rimaniamo uniti nella preghiera del S. Rosario. Risposi: “Eccellenza, voi avete fatto tanto per me, io ho fatto poco. La vostra santa pazienza è stata grande nei miei confronti. Vi ringrazio immensamente.” Ci abbracciammo, mi inginocchiai per ricevere la sua paterna e confortatrice benedizione apostolica e, commossi, ci salutammo nel Signore.